SAN
GREGORIO MAGNO
Papa e Dottore della Chiesa (540?-604) Memoria
LETTURE:
Ez 34, 11-16;
Sal
22;
Gv 10, 11-16
Gregorio Magno fu un uomo veramente mirabile, una personalità che
conquista per la forza e l’amabilità dei carattere: delle sue opere
mirabili è grande lui stesso, sebbene esile e sovente e malato. In lui
l’immensità del cuore e lo spirito cristiano sostenevano tutto. Nato
verso il 540 dalla famiglia senatoriale degli Anicii, fu
prima
Prefetto di Roma, poi monaco appassionato della contemplazione
dei
misteri di Dio nella lettura della Bibbia. Mandato dal Papa come
suo
rappresentante a Costantinopoli, vi restò sei anni, monaco in
mezzo
alla corte. Tornato a Roma e fatto Papa, il 3-IX-590, si
dimostrò uomo
di azione, pratico e intraprendente (chiamato «l’ultimo dei
Romani»), attento a tutte le necessità. Fu amministratore avveduto ed
energico, sia nelle cose sociali e politiche per provvedere alle
popolazioni bisognose di aiuto e di protezione, sia nelle
questioni
interne della Chiesa universale. Ebbe a trattare con la
Germania, la
Spagna, la Gallia, l’Africa, l’impero di Bisanzio. Fu sollecito
particolarmente dell’Italia provata da alluvioni, carestie,
pestilenze, incursioni dei Longobardi. Di questi avvio la
conversione e
mandò missionari in Inghilterra. Riorganizzò a fondò la liturgia
romana, ordinando le fonti liturgiche anteriori e componendo
nuovi
testi, e promosse quel canto tipicamente liturgico che dal suo
nome si
chiama «gregoriano».
Mistico originale e personale (pur riallacciandosi a sant’Agostino), lo si scopre oggi più teologo di quanto non sembri a prima lettura dei suoi scritti, che hanno avuto un profondo influsso sulla spiritualità medievale. Egli è uno dei quattro grandi «dottori» della Chiesa occidentale. Ha parlato e scritto molto sul mistero della Parola di Dio. |
Non risparmio me stesso nel parlare di Cristo
Dalle «Omelie su Ezechiele» di san Gregorio Magno, papa
(Lib. 1, 11, 4-6; CCL 142, 170-172) «Figlio dell'uomo, ti ho posto per sentinella alla casa d'Israele» (Ez 3, 16). E' da notare che quando il Signore manda uno a predicare, lo chiama col nome di sentinella. La sentinella infatti sta sempre su un luogo elevato, per poter scorgere da lontano qualunque cosa stia per accadere. Chiunque è posto come sentinella del popolo deve stare in alto con la sua vita, per poter giovare con la sua preveggenza. Come mi suonano dure queste parole che dico! Così parlando, ferisco me stesso, poiché né la mia lingua esercita come si conviene la predicazione, né la mia vita segue la lingua, anche quando questa fa quello che può. Ora io non nego di essere colpevole, e vedo la mia lentezza e negligenza. Forse lo stesso riconoscimento della mia colpa mi otterrà perdono presso il giudice pietoso. Certo, quando mi trovavo in monastero ero in grado di trattenere la lingua dalla parole inutili, e di tenere occupata la mente in uno stato quasi continuo di profonda orazione. Ma da quando ho sottoposto le spalle al peso dell'ufficio pastorale, l'animo non può più raccogliersi con assiduità in se stesso, perché è diviso tra molte faccende. Sono costretto a trattare ora le questioni delle chiese, ora dei monasteri, spesso a esaminare la vita e le azioni dei singoli; ora ad interessarmi di faccende private dei cittadini; ora a gemere sotto le spade irrompenti dei barbari e a temere i lupi che insidiano il gregge affidatomi. Ora debbo darmi pensiero di cose materiali, perché non manchino opportuni aiuti a tutti coloro che la regola della disciplina tiene vincolati. A volte debbo sopportare con animo imperturbato certi predoni, altre volte affrontarli, cercando tuttavia di conservare la carità. Quando dunque la mente divisa e dilaniata si porta a considerare una mole così grande e così vasta di questioni, come potrebbe rientrare in se stessa, per dedicarsi tutta alla predicazione e non allontanarsi dal ministero della parola? Siccome poi per necessità di ufficio debbo trattare con uomini del mondo, talvolta non bado a tenere a freno la lingua. Se infatti mi tengo nel costante rigore della vigilanza su me stesso, so che i più deboli mi sfuggono e non riuscirò mai a portarli dove io desidero. Per questo succede che molte volte sto ad ascoltare pazientemente le loro parole inutili. E poiché anch'io sono debole, trascinato un poco in discorsi vani, finisco per parlare volentieri di ciò che avevo cominciato ad ascoltare contro voglia, e di starmene piacevolmente a giacere dove mi rincresceva di cadere. Che razza di sentinella sono dunque io, che invece di stare sulla montagna a lavorare, giaccio ancora nella valle della debolezza? Però il creatore e redentore del genere umano ha la capacità di donare a me indegno l'elevatezza della vita e l'efficienza della lingua, perché, per suo amore, non risparmio me stesso nel parlare di lui. |
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